Durante i primi mesi del 2016 molti importanti soggetti politici ed organismi deputati all’analisi economica hanno iniziato a prevedere una ripresa dell’economia italiana.
La lenta e faticosa uscita dal tunnel della crisi sembrava effettivamente produrre i suoi primi risultati già dalla fine del 2015, tanto da indurre il Governo a prevedere una crescita del PIL 2016 pari a 1,2 punti percentuali nel Documento di economia e finanza (Def), dopo una crescita dello 0,3% nel 2015 e, soprattutto, dopo una recessione durata 14 trimestri (3° trimestre 2011 - 4° trimestre 2014) con un calo del PIL del 5,5%. Lo stesso hanno fatto il Fondo Monetario Internazionale (FMI) - con una previsione di crescita del PIL 2016 dell’1,1% nell’outlook di maggio - e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), con un PIL al +1% nel 2016 e +1,4% nel 2017.


Purtroppo, però, nel corso dell’anno le previsioni sono state ritoccate al ribasso e, cosa ancor più preoccupante, le basi sulle quali si sta poggiando la tanto agognata ripresa appaiono sempre più fragili.
Il Centro Studi Confindustria nel suo report “Scenari economici n. 26” di giugno 2016 ha infatti dedicato un approfondimento al tema della ripresa dall’eloquente titolo “In Italia risalita dell’economia senza credito, durerà?”. Viene posto l’accento sulla forte contrazione del credito alle imprese, in considerazione del nesso causale tra credito e Prodotto interno di una nazione.
Nel corso degli anni varie analisi hanno evidenziato la diretta proporzionalità tra erogazione di prestiti bancari e crescita del PIL: nella fase pre-crisi tra il 2004 e il 2007 gli aumenti dei prestiti bancari alle imprese in Spagna (+24% annuo), Italia (+9% annuo) e Francia (+8% annuo) hanno sempre accompagnato un’espansione economica.
 
Detto ciò, posto che per far crescere investimenti e attività corrente occorre avere finanziamenti, ci si interroga sui motivi della crescita italiana, alla luce di un credit crunch pari al 3% annuo negli ultimi 5 anni.
La risposta è da rintracciarsi nel calo dei prezzi degli input, in particolare le quotazioni delle materie prime. Da qui, gli economisti di Confindustria propongono un’analisi comparativa con la ripresa dell’economia spagnola. La penisola iberica, infatti, offre un utile termine di paragone, in considerazione di un grado di indebitamento delle imprese e di un’apertura del credito piuttosto simili a quelli nostrani; entrambe gli Stati, quindi, stanno vivendo una fase di ripresa economia in un ambiente di creditless ricovery.
In questo modo, l’unica opportunità per le aziende di raccogliere risorse è l’autofinanziamento e in questo passaggio sta una profonda differenza tra l’economia italiana e quella spagnola: mentre in Italia, come già accennato, il recupero di redditività è da attribuire quasi esclusivamente alla diminuzione dei costi per le forniture, in Spagna la crescita economica è dovuta ad un autofinanziamento scaturito dall’abbattimento del costo del lavoro.
Il Costo del Lavoro per Unità di Prodotto (CLUP) spagnolo ha registrato -1,1% nel 2015 nel manifatturiero dopo il -2,2% cumulato nel 2013-2014. Al contrario, il CLUP manifatturiero italiano è salito nel 2015 do 0,3 punti percentuali, andando ad aggiungersi al +3,0% raggiunto nel periodo 2013-2014.
 
Alla luce di quanto detto sopra, quindi, la ripresa dell’economia italiana si basa su un autofinanziamento delle attività indotto da cause esogene, fuori dal controllo degli imprenditori, i quali nel 2017 - secondo lo scenario ipotizzato da Confindustria - incontreranno nuove difficoltà a causa del previsto rincaro sia del petrolio sia delle comodità non-energetiche.
Aggiungendo, infine, la scarsa attitudine del sistema economico nazionale a reperire risorse finanziarie da fonti non bancarie, appare auspicabile come unico intervento nel brevissimo termine una riapertura del credito, nella speranza che non si riduca, nel medio-lungo termine, ad un effetto placebo.
 
Articolo redatto dal Dott. Riccardo Cerulli - 12/9/2016