In base ai dati forniti dall’Osservatorio Economico su dati IMP-DOTS (Direction of Trade Statistics) ad agosto 2016, l’Italia si colloca all’ottavo posto nella classifica globale dei paesi esportatori, con una quota di mercato del 2,9% ed un surplus commerciale riferito alla sola industria manifatturiera superiore a 100 miliari di dollari.
I nostri sette migliori competitori sono Cina, Stati Uniti, Germania, Giappone, Paesi Bassi, Francia e Corea del Sud, ma escludendo dalla bilancia commerciale il petrolio greggio e il gas naturale il numero di paesi con una migliore performance scenderebbe a quattro (Cina, Germania, Corea del Sud e Giappone).

 
Alla luce di tali statistiche, il ruolo del Made in Italy nel mondo appare ancora molto importante, a maggior ragione che si considera che su un totale di più di cinquemila prodotti selezionati nell’Indice Fortis-Corradini del 2014 (elaborato dalla Fondazione Edison) per la classifica dell’attivo commerciale con l’estero, l’Italia si è piazzata al primo gradino del podio 227 volte, al secondo 353 volte e infine 319 al terzo.
I dati sopra riportati, quindi, fotografano una situazione del nostro sistema-Paese piuttosto buona, ma è opportuno approfondire il livello di analisi - tanto in retrospettiva, quanto a livello previsionale - al fine di comprendere meglio le numerose sfumature che il dato grezzo necessariamente non può cogliere.

 
Innanzitutto, la globalizzazione.
Dal nuovo millennio, paesi come la Cina, l’India e altri mercati emergenti hanno radicalmente modificato i flussi commerciali che, fino alla fine del Ventesimo secolo, hanno caratterizzato il commercio mondiale, dominato allora dalle economie occidentali.
E saranno proprio queste ultime a soffrire la crescita dei nuovi entrati nel novero dei grandi esportatori.
Dal 2000 in poi, quindi, la conservazione delle quote del mercato mondiale fino a quel momento conquistate è stato l’obiettivo comune delle economie avanzate e, tra queste, l’Italia è riuscita a mantenere il 75% delle quote di export. Valore piuttosto lontano dal 94% della Germania, ma rassicurante se si confronta con altri competitors come la Francia ed il Regno Unito che hanno perso, rispettivamente, il 40 ed il 37 per cento delle quote di mercato in favore delle economie emergenti.

 
Ad oggi, quindi, l’Italia ha risposto con una buona elasticità agli stravolgimenti della globalizzazione, ma una criticità si mostra in tutta la sua evidenza nel momento in cui per analizzare l’evoluzione della quota di mercato italiana si calcolano le quote distinte per economie avanzate, mercati emergenti e nuove opportunità. Con tale ripartizione, infatti, si osserva facilmente come l’Italia stia mancando l’appuntamento con il mercato delle nuove opportunità: la riduzione di quote di mercato in queste aree dal 2000 ad oggi è di circa il 50%, passando dal 5,7% al 2,8% del nostro export.
Resta pur vero che, invece, nelle economie “tradizionali” il paese è riuscito a perdere pochi punti percentuali di quote (nelle economie avanzate si è mantenuto l’87,1% e l’84% tra gli emergenti), rispondendo bene agli agguerriti mercati asiatici.
 
Nonostante ciò, purtroppo, si parla comunque di buone performance di “mantenimento” di quote di mercato e di certo non di espansione.
Le economie occidentali sembrano ormai aver profuso il massimo sforzo per la crescita, lasciando ad altri il ruolo di locomotiva del commercio mondiale.
In ottica futura, quindi, appare più incerto il destino dell’economia italiana, costretta oggi a fare i conti un uno spaventoso deficit di produttività e con un gap organizzativo del nostro sistema produttivo dal colmare nel più breve tempo possibile.
 
Articolo redatto dal Dott. Riccardo Cerulli - 26/04/2017