Il contratto di associazione in partecipazione, disciplinato dagli articoli 2549 e seguenti del codice civile, prevede che un imprenditore per svolgere l'attività della sua impresa, o anche per un determinato affare, possa avvalersi del contributo di un altro o più soggetti che diventano così associati ma non soci, invero, senza che si debba costituire alcun tipo di società.
La normativa chiama apporto il contributo dell’associato, disponendo che questo possa costituire il corrispettivo di una partecipazione agli utili dell’impresa attribuita dall’associante. L’apporto può consistere in un conferimento di denaro o altri beni utili all’imprenditore ma, nel caso in cui l'associato sia una persona fisica, non è più possibile un apporto corrispondente ad attività lavorativa.

Dal 25 giugno 2015, invero, con l’entrata in vigore del  decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, cosiddetto Jobs Act (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni), l’art. 2549 del  codice  civile è stato modificato ai sensi dell’art.53 del predetto decreto disponendo che nel caso in cui l'associato sia una persona fisica l'apporto non può consistere,  nemmeno  in  parte,  in  una  prestazione  di lavoro.
Ciò in ragione dell’abuso di questa forma contrattuale per celare rapporti di lavoro subordinato ove l'elemento caratterizzante sia l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.
Detta situazione, in particolare, complicava in concreto la distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa. La riconducibilità all’uno o all’altro esigeva indagini di merito sugli elementi caratterizzanti, quali l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa da una parte ed il vincolo di subordinazione gerarchico e disciplinare dall’altra.

Orbene, per effetto del contratto di associazione in partecipazione non si costituisce un fondo comune né si determina la gestione in comune dell'attività di impresa bensì si pattuisce la partecipazione dell'associato al rischio di impresa ed alla distribuzione degli utili nonché alle perdite secondo gli accordi stabiliti. Di regola, l'associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, in ogni caso, le perdite che riguardano l'associato non possono mai superare il valore del suo apporto. Ai sensi di legge, il contratto può determinare quale controllo possa esercitare l'associato sull'impresa o sullo svolgimento dell'affare per cui l'associazione è stata contratta. Comunque, si differenzia dal contratto di società per la mancanza di un patrimonio autonomo comune tra associante e associato.
Nel contratto di associazione in partecipazione, titolare dell’impresa rimane l’associante, tanto che nei confronti dei terzi è l’unico soggetto a cui sono riferibili debiti e crediti dell’impresa. Nei rapporti tra associante ed associato, cosiddetti interni, invece l’associato si assume il rischio di impresa salvo diverso accordo. Inoltre, in capo all’associato può essere previsto un potere di controllo sulla gestione, fermo restando che in base alla normativa vigente all’associato spetta comunque il diritto al rendiconto annuale dell’impresa ovvero al rendiconto finale sul determinato affare oggetto del rapporto di associazione in partecipazione.
Diversamente, è il contratto di cointeressenza ex art. 2554 del codice civile, che prevede una partecipazione sia agli utili che alle perdite senza il corrispettivo di un apporto (cointeressenza c.d. propria) oppure la partecipazione agli utili a fronte di un apporto ma senza partecipazione alle perdite (cointeressenza c.d. impropria). 

 
Articolo redatto dall'Avv. Andrea Cruciani il 15.03.2016