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Osservatorio delle Società di Capitali n. 6/2011
 
Il Testo unico della intermediazione finanziaria (T.U.F.)
Per T.U.F. si intende il d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, che racchiude una disciplina sistematica, con l’obbiettivo di incanalare il risparmio sui beni o strumenti finanziari di secondo grado (ad es. azioni e obbligazioni) o di terzo (strumenti finanziari derivati, come futures e swaps) negoziati nelle borse. Si sono quindi disciplinate in un unico testo sia le c.d. società emittenti (società con azioni quotate in borsa), sia gli intermediari finanziari specializzati (c.d. investitori istituzionali).
Al riguardo, l’internazionalizzazione dei mercati dei capitali, ha posto anche il problema di disciplinare il tema del ricambio del controllo societario. Di qui la disciplina giuridica sull’OPA e l’OPS (rispettivamente offerta pubblica di acquisto e di scambio), permettendo al piccolo azionista di partecipare al c.d. premio di maggioranza per il maggior prezzo offerto per ottenere il controllo delle varie società quotate.

Articolo redatto l'11.11.2011 dall'Avvocato Emanuele Verghini - Studio Legale Verghini Roma

Osservatorio delle Società di Capitali n. 5/2011

La nascita della Consob
Negli ani ’60 e ’70 del secolo scorso lo sviluppo economico di massa ha portato all’aumento della propensione all’investimento a rischio della piccola e media borghesia. Per le società si è di conseguenza aperta una nuova strada: quella di convogliare direttamente il risparmio delle famiglie attingendo capitali direttamente dalla borsa senza la intermediazione del sistema bancario.
Ed è così che è nata anche in Italia la figura del piccolo azionista risparmiatore (tipicamente disinformato, disorganizzato ed assenteista alle assemblee) a tutela del quale, nel 1974, è stata istituita la Commissione nazionale per le società e la borsa (legge 7 giugno 1974, n. 216).


Articolo redatto il 4.11.2011 dall'Avvocato Emanuele Verghini - Studio Legale Verghini Roma

Osservatorio delle Società di Capitali n. 2/2011
 
Spettabile Redazione di Tusciafisco, è vero che nel medioevo il capitale dato a mutuo non produceva interessi? Come sono nate storicamente le borse valori?
È vero quello che dici, curioso lettore di Tusciafisco. Per i mutui vigeva il principio della loro gratuità. C’era infatti il divieto di usura, fondato sul canone evangelico “mutuum date nihil inde sperantes” (Luca 6, 35). Detto canone era posto a garanzia dei contadini (che costituivano il ceto maggioritario nella società medioevale) e che potevano esser costretti a chiedere dei presti nel caso di annate agricole sfortunate. 
Ed è proprio per questo motivo che nella s.p.a. la limitazione della responsabilità dei soci si è affermata solo nel XIX con caratteristiche di generalità.
All’inizio, infatti, per la nascita di una s.p.a. (all’epoca chiamata semplicemente Compagnia) occorreva un provvedimento sovrano, per consentire il privilegio della responsabilità limitata per i finanziatori dell’impresa di commercio lungo le nuove rotte di circumnavigazione dell’Africa o con le Americhe, da poco scoperte.
Per tali spedizioni per le nuove vie marittime, che andavano a sostituire la  antica via della seta (tradizionale percorso terrestre nel medioevo), erano indispensabili ingenti capitali, per l’allestimento delle flotte e l’armamento degli eserciti; ed ai finanziatori dell’impresa per mare non poteva richiedersi alcun sacrificio economico a titolo di responsabilità verso i creditori della società.
Nel 1600 si è costituita in Inghilterra la Compagnia delle Indie orientali, con partecipazione al finanziamento riservata agli aristocratici di Corte e nel 1602 nasceva in Olanda la Compagnia delle Indie orientali, aperta invece ai finanziamenti di tutti i cittadini. Nel 1664 nascevano poi in Francia (con provvedimento di Luigi XIV) le Compagnie delle Indie orientali e la Compagnia delle Indie occidentali (le Americhe).
Attraverso la limitazione della responsabilità al capitale conferito si formavano quindi i presupposti per la libera circolazione delle partecipazioni, per mezzo dei documenti rappresentativi della frazione omogenea di capitale sociale detenuto, le azioni (shares).
Nascevano così (a Londra, ad Amsterdam, etc.) i mercati delle azioni della varie Compagnie.


Quesito redatto il 13.10.2011 dall'Avvocato Emanuele Verghini - Studio Legale Verghini Roma

Osservatorio delle Società di Capitali n. 1/2011
 
Spettabile Redazione di Tusciafisco, mi sono sempre domandato quale sia l’origine storica della limitazione di responsabilità dei soci nelle società di capitali? È vero che ha origini medioevali?
Sono società di capitali la s.p.a. (società per azioni), la società in accomandita per azioni, la s.r.l. (società a responsabilità limitata), la società cooperativa, la società di mutua assicurazione, la società europea (Reg. CE n. 2157/2001) e la società cooperativa europea (reg. CE n. 1435/2003).
Caratteristica distintiva delle società di capitali è la limitazione della responsabilità dei soci all’apporto, salvo che nella società in accomandita per azioni, dove gli accomandatari  hanno responsabilità illimitata sussidiaria, in quanto amministrano la società – a differenza degli accomandanti che non amministrano e godono quindi della limitazione della responsabilità piena.
La ratio della limitazione di responsabilità va rinvenuta nell’incentivo ad attrarre capitali sociali grazie alla certezza di non subire perdite nel patrimonio personale dell’investitore al di là dell’apporto deputato alla attività di rischio.
È vero: l’origine della limitazione della responsabilità affonda nella civiltà comunale, con la società in accomandita semplice e successivamente per azioni, con la circolazione del documento rappresentativo della quota dell’accomandante. Probabilmente la accomandita trae origine dalla evoluzione del prestito a rischio marittimo. Attraverso la commenda si affidava una somma di danaro al commerciante per una operazione commerciale marittima, con la restituzione di detta somma di danaro accresciuta di una quota di utili se l’operazione andava a buon fine, però col rischio di perdere tutto in caso di pericoli (come la pirateria ed il mare tempestoso).
Ciò costituiva una evoluzione rispetto alla società collettiva, con la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci (che erano tutti commercianti) a cui corrispondeva un pieno potere di gestione disgiuntiva della società con un forte rapporto fiduciario fra i soci medesimi (intuitus personae).


Quesito redatto il 13.10.2011 dall'Avvocato Emanuele Verghini - Studio Legale Verghini Roma

Spett.le Tusciafisco, anche il libero professionista che ha una struttura minimale (una organizzazione di modesta entità) ha l’obbligo di pagare l’IRAP?

Per la sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione sì.

Con la sentenza 27 Settembre 2011, n. 19688, infatti, i giudici di legittimità hanno stabilito che un professionista (non dipendente o collaboratore) è soggetto al prelievo fiscale anche nel caso in cui la struttura sia minimale.

Con detta pronuncia la Cassazione ha accolto il ricorso che l’amministrazione finanziaria aveva presentato avverso la decisione della Commissione Tributaria Regionale di accordare il rimborso dell’imposta a due commercialisti ed un avvocato perché, “pur essendo liberi professionisti, erano titolari di un assetto organizzativo di rilievo minimale”.

Nella sentenza de qua si legge testualmente “per l’Irap è necessaria la presenza di una struttura che costituisca un di più rispetto agli elementi minimi richiesti per l’esercizio dell’attività professionale, la quale, in mancanza di essi, costituisce l’unico dato che è fonte del reddito derivatone. Ciò posto, tuttavia va osservato che in tema di IRAP l’applicazione dell’imposta è esclusa soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Infatti il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b)impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’”id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente, che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta, dare la prova dell’assenza delle predette condizioni, e che tuttavia non era stato assolto nel caso in esame”.

Spetterà quindi al contribuente che vuole ottenere il rimborso fornire la prova di non essere tenuto al pagamento dell’IRAP, e che, quindi, la propria attività non presenta i requisiti dell’autonoma organizzazione, e poiché nella fattispecie oggetto di controversia, i professionisti non hanno adempiuto al sopra menzionato onere probatorio, i giudici della Corte non hanno potuto far altro che accogliere il ricorso dell’Agenzia, dando ragione al Fisco.


Quesito redatto il 13.10.2011 dall'Avvocato Emanuele Verghini - Studio Legale Verghini Roma

Spett.le Tusciafisco, vorrei porVi il seguente quesito: È responsabile il singolo amministratore di una società per azioni nei confronti della società medesima a fronte della breve durata del suo incarico, della mancanza di prova in merito al suo apporto ai fini della produzione dell’evento dannoso e della sua qualifica di “amministratore senza delega”?

In linea generale, la risposta è si: è responsabile.
Difatti, la responsabilità solidale per danno di tutti i membri del consiglio di amministrazione di una società di capitali nei confronti della società medesima non viene meno anche se mancano le deleghe operative specifiche in capo ad uno dei responsabili di cattiva gestione (c.d. responsabilità collettiva o collegiale); l’amministratore immune da colpa non è però responsabile se ha fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale.

Per maggiori approfondimenti si legga la recente sentenza della Cassazione civile, I^ sezione, 27 aprile 2011, n. 9384.


Quesito redatto il 13.10.2011 dall'Avvocato Emanuele Verghini - Studio Legale Verghini Roma

Questa estate in una località di mare mi è capitato di vedere che una ragazza è stata multata per aver acquistato una borsa contraffatta da un giovane africano, anche io sarei tentata di comprare qualcosa del genere ma temo le conseguenze. Mi può dire cosa si rischia in questi casi?

È certamente sconsigliabile acquistare merce di qualsiasi genere palesemente contraffatta dai tanti venditori “volanti” che si incontrano nelle nostre località di mare ma anche nel centro di Roma.
A parte ogni considerazione giuridica questi oggetti, borse,portafogli, profumi, maglieria ma anche DVD e CD, sono nella maggior parte dei casi prodotti in laboratori siti in Italia ma soprattutto all’estero comunque controllati dalla malavita organizzata ed il loro smercio notoriamente è collegato al riciclaggio di denaro di provenienza illecita.
Facendo questi acquisti cosa si rischia ? Se si viene colti in flagrante dalla polizia municipale è prevista una sanzione amministrativa da 500 a 10.000 euro, con riduzione a soli, si fa per dire, 1000 euro se il pagamento avviene entro sessanta giorni.
In questi casi può configurarsi per chi vende e per chi acquista la fattispecie di “acquisto di cose di sospetta provenienza” disciplinata dall’art. 712 del codice penale, norma in parte obsoleta, che prevede per l’acquisto di “cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo (potrei citare la famosa borsa di Vui… a 50 euro) si abbia motivo di sospettare che provengano da reato è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda non inferiore a euro 10”.
Ciò che deve essere vinta è la convinzione purtroppo ben radicata che comprando prodotti falsi si faccia un affare e non si contribuisca né a sostenere le attività della criminalità organizzata né a danneggiare i tanti marchi italiani che fanno dello stile e della qualità del prodotto il loro fiore all’occhiello internazionale.
Per non parlare poi, in tema di salute, della sicurezza dei prodotti che si acquistano come hanno evidenziato alcuni recenti casi in cui sono rimasti coinvolti minori.  


Quesito redatto il 27.9.2011 dall'Avvocato Luigi De Valeri - Studio Legale De Valeri Roma

Tre anni fa circa ho acquistato una casa rientrante tra le abitazioni “non di lusso” usufruendo delle agevolazioni fiscali, ora ho ricevuto un avviso di liquidazione che contiene la revoca di questa agevolazione prima casa in quanto l’immobile non rientrerebbe in questa categoria. Può chiarirmi se è fondata la richiesta dell’agenzia delle entrate e come posso oppormi?
 
Innanzitutto in base all’art. 76, comma 2, del D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, l’attività di accertamento volta a recuperare la maggiore imposta soggiace al termine di decadenza triennale e il contribuente può impugnare l’avviso con ricorso alla competente commissione tributaria provinciale entro sessanta giorni dalla notifica cioè da quando ha ricevuto l’avviso di liquidazione.
Salvo verificare la legittimità in fatto e in diritto nel suo caso particolare  alla luce delle disposizioni del citato D.P.R. 131/86, il Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, in via generale va detto che si deve far riferimento alla data di acquisto dell’immobile e non della sua costruzione per verificare il diritto del contribuente alle agevolazioni “prima casa” (Cassazione, sentenza n. 17600 del 28 luglio 2010).
I criteri identificativi delle cosiddette “abitazioni di lusso” sono indicati nel D.Min. dei Lavori pubblici  2 agosto 1969 n. 1072, articoli 1-8, ai quali si rimanda per brevità, per cui ricorrendo le caratteristiche di queste tipologie di immobili non sono concesse le agevolazioni fiscali cd. prima casa.
In materia la recente Cassazione n. 18580/2010 ha ribadito il principio di diritto per cui ai fini della fruizione dei benefici fiscali dell’acquirente di prima casa è rilevante la residenza anagrafica  di questi nel Comune dove si trova l’immobile oggetto della compravendita, essa prevale sulla realtà fattuale che non ha rilevanza giuridica.
Ricordiamo che la residenza va trasferita entro diciotto mesi dall’atto di acquisto, nel rogito l’acquirente beneficiario dovrà espressamente far inserire tale dichiarazione e dovrà comunque presentare l’istanza al Comune competente entro tale termine per non rischiare la revoca del beneficio.
Infine va menzionata la circolare n. 38 del 12 agosto 2005 dell’Agenzia delle Entrate che ribadisce come nell’atto l’acquirente deve dichiarare di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare.


Quesito redatto il 26.9.2011 dall'Avvocato Luigi De Valeri - Studio Legale De Valeri Roma

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