Il 27 novembre 2014 l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC - Organization of the Petroleum Exporting Countries) ha preso una decisione rilevante: mantenere inalterato il livello di produzione di petrolio a dispetto, da una parte, dell'indebolimento della domanda complessiva e, dall'altra parte, dell'incremento della produzione dei principali competitor, in particolare degli Stati Uniti.
 
La strategia OPEC di tutelare le proprio quote di mercato nel breve periodo è apparsa subito netta; la diretta - e prevedibile - conseguenza è stata quindi il calo verticale del prezzo del petrolio, attestatosi oggi sotto il limite dei 50 dollari al barile (-50% rispetto a giugno 2014). Naturalmente la crescita economica mondiale ne è stata coinvolta, con particolare beneficio per i paesi importatori (l'OCSE ha stimato un incremento del PIL di 0,6 punti percentuali delle economie avanzate). In Italia, ad esempio, l'incidenza della fattura petrolifera sul PIL del 2014 è diminuita dello 0,5% rispetto ai cinque anni precedenti, portandosi dal 2% all'1,5%, con benefici per i bilanci delle aziende produttrici nazionali (specie dei settori metallurgico, chimico e meccanico), da sempre fortemente vincolate all'estero per l'approvvigionamento di energia.
 
È facile capire come le compagnie petrolifere dei paesi produttori - sia OPEC (come Arabia Saudita, Iraq, Quatar, Nigeria e Kuwait) che non-OPEC (fra tutti Stati Uniti, Russia e Canada) - abbiano subito forti perdite per via di un prezzo del petrolio inferiore ai costi di estrazione. Non è tutto, gli stessi stati esportatori che hanno nell'export di petrolio la voce principale delle entrate di bilancio, vedono in pericolo la tenuta dei conti pubblici.
 
A questo punto, la domanda - banale - è la seguente: fino a che punto i Paesi OPEC sono disposti a danneggiare se stessi per difendere le proprie quote del mercato petrolifero? La risposta può essere tanto semplice quanto congetturale: fino all'eliminazione della concorrenza.
 
Per sostenere questa infausta tesi è utile citare tre dati:
1) pressochè l'80% dell'intensificazione dell'offerta mondiale di petrolio dipende dall'evoluzione della produzione degli USA. Questi ultimi, infatti, con il perfezionamento delle tecniche di fratturazione idraulica per l'estrazione sono oggi un top player nella produzione di petrolio;
2) un elemento determinante nel mercato petrolifero è rappresentato dallo stock di riserve di petrolio che ogni esportatore detiene. Tra i primi dieci paesi mondiali per riserve, otto sono membri OPEC e spicca l'assenza degli Stati Uniti;
3) per quanto concerne i costi di produzione aziendale vi sono notevoli distacchi tra i Paesi OPEC (con un costo di estrazione inferiore ai 15 $/barile per l'Arabia Saudita) e gli altri esportatori, in particolare gli USA.
 
Analizzando i dati appena menzionati, si può affermare che i Paesi OPEC sono in grado più di ogni altro di sostenere una fase prolungata di quotazioni del greggio sotto i valori di bilancio. Fase che sta iniziando a mietere vittime illustri
In primis, gli Stati Uniti.
Basti pensare che nei primi 15 giorni del 2015 sono stati dismessi 28 impianti di estrazione del petrolio in New Mexico e Texas.
In secondo luogo, la Russia.
Come noto, l'economia russa è legata a doppio filo all'esportazione del petrolio ed il calo del prezzo - associato alla parallela svalutazione del rublo - ha prodotto una crisi economica che sta mettendo in ginocchio il Paese.
 
Volendo (maliziosamente) pensare ad una strategia OPEC di medio/lungo periodo tesa all'eliminazione della concorrenza nel mercato petrolifero, si può già intravederne il successo. Il prossimo scenario, quindi, vedrà la disfatta dei produttori non-OPEC ed il cartello OPEC monopolista del mercato?
E se così fosse (noi naturalmente speriamo di sbagliarci), quale sarà l'atteggiamento dei Paesi OPEC?
In questa visione, non si può escludere un forte rimbalzo del prezzo del petrolio fino a livelli forse mai raggiunti, con conseguenti alterazioni macroeconomiche dei paesi occidentali.
 
Focalizzando l'attenzione sul nostro Paese, quale scotto pagherebbe un sistema economico già piegato da disoccupazione (12,8%), bassa crescita (Italia penultima prima di Cipro) ed elevato debito pubblico (rapporto debito/PIL 2015 al 133% - dati Bollettino BCE 1/2015)?
A fronte del risparmio del 18% della fattura petrolifera italiana del 2014 rispetto al 2013 (pealtro coadiuvata da un calo di consumi del 4,5%), a quali condizioni dovremo acquistare il petrolio?
 
La speranza è che lo scenario appena descritto si fermi sulla soglia della verosimiglianza, senza mai tradursi in una realtà che si rivelerebbe complessa.
 
Lo spauracchio della crisi energetica dovrebbe comunque essere ben presente nei pensieri dei nostri amministratori (nazionali, comunitari e mondiali), i quali - volenti o nolenti - potrebbero trovarsi a dover affrontare un braccio di ferro che non potremo vincere.
 
BIBLIOGRAFIA:
  • BNL FOCUS N. 04 "La flessione dei prezzi del petrolio: alcune implicazioni", 30/1/2015;
  • BOLLETTINO ECONOMICO BANCA CENTRALE EUROPEA n. 1/2015, pubblicato il 5/2/2015;
  • ARTICOLO adnkronos.com "L'Opec non fermerà la rivoluzione shale negli USA", 5/2/2015;
  • ARTICOLO ilsole24ore.com "Tra crisi russa e petrolio la faccenda diventa seria" di Paul Krugman (tradotto da Fabio Galimberti), 27/12/2014.